Di tutti i dettagli non sono sicura. Questa è la storia così come me l’ha raccontata mia zia, che all’epoca dei fatti era una bambina. È il racconto del racconto, come lei l’ha sentito dagli adulti durante gli anni. L’ho poi rieditato usando le parole della cugina Claudia, la figlia di Nando, che purtroppo ci ha lasciati quest’anno. È così che la storia si trasforma pian piano in polvere.
Lo zio Nando era il fratello di mia nonna, lo zio di mia madre e di mia zia. La sua famiglia viveva in una grande casa contadina ad Arcola, un borgo sulle colline a est della mia città, La Spezia.
Suo padre, il nonno Emilio (il mio bisnonno), era stato uno dei primi entusiasti a credere in Mussolini, ma all’epoca dei fatti aveva già capito che il fascismo faceva schifo. Suo figlio, lo zio Nando, era nell’areonautica.
Non so perché a un certo punto decise di disertare, non conosco il motivo preciso. Immagino che anche lui avesse capito di essere dalla parte sbagliata della storia e avesse cercato di porre rimedio.
Non ho mai conosciuto lo zio Nando, per un motivo molto semplice: è morto ben prima che io nascessi. È morto prima che nascesse mia madre e quando sua figlia Claudia era ancora minuscola.
Non so se fosse spiritoso, timido, antipatico, spendaccione, impacciato. L’ho visto solo in fotografia ed è proprio vero, è una fetente legge di natura, gli eroi son tutti giovani e belli. Una cosa che mi fa un po’ impressione, se ci penso, è che nessuno ricordi più il suono della sua voce.
Quindi, dicevo, non lo so perché decise di disertare e di unirsi ai partigiani.
Diversi militari, in quegli anni, l’avevano capito di servire uno stato indegno. Avevano capito che il loro lavoro non era quello che stavano facendo e che “il nemico” aveva ragione.
Lo zio Nando abbandonò il suo reggimento e si unì alla lotta partigiana nel ’43. Il suo contributo era prezioso perché, in quanto militare, aveva conoscenze tecniche e logistiche che potevano essere utili. Sapeva come usare le armi che mandavano gli Alleati, sapeva come far saltare un ponte, diventò un comandante partigiano.
Sentiva raccontare mia zia che quando saliva nella nostra zona, occupata, per vedere sua moglie, si nascondeva nella grande casa contadina dei suoi genitori, dietro una finta parete, in una stanzetta in cui c’era una scala che portava alla cantina del vino – la casa era circondata dalle vigne. La cantina aveva poi un portone da cui si poteva uscire.
Anche quella volta lo zio Nando si nascose lì.
Arrivano i tedeschi con i cani, e cercavano lui, il disertore. Sua madre, la mia bisnonna, li accolse con mille onori, offrì loro vino, caffè, tutto quello che aveva in casa. Nel frattempo lo zio Nando scendeva in cantina e dalla cantina usciva sui pianelli.
Qua, sotto un grande fico, avevano scavato una buca profonda. La buca l’avevano coperta con un assito e l’assito di zolle d’erba. Lo zio Nando si cacciò nella buca e suo padre si mise lì sopra, sopra l’assito, e fece finta di occuparsi del fico, così che quando i tedeschi uscirono con i cani, i cani annusarono un uomo, sì, ma tutti pensarono che avessero sentito solo l’odore di nonno Emilio.
Ve la racconto così, come l’hanno raccontata a me, ma riuscite a immaginare come dovevano battere quei tre cuori? Riuscite a immaginare la paura? Quasi se ne sente il rumore.
Una cosa che mi ha sempre lasciata di sasso dei partigiani è proprio questo. Erano persone come noi, che un giorno decisero che in fondo, sì, potevano anche andare a morire per combattere il fascismo.
A morire. A perdere la vita, il bene più grande. L’ho già scritto in passato, ma lo ripeto: voi lo sentite, quant’è immensa questa cosa?
Quindi, lo zio Nando andò a combattere il fascismo. Si unì ai partigiani.
Ciao, soldati tedeschi, non avreste dovuto fidarvi di quella madre così felice di vedervi. Che se ci penso, ci godo ancora a quasi ottant’anni di distanza. Scemi.
Non so che cosa successe mentre lo zio Nando era con i partigiani, ma di certo quei tedeschi scemi gli diedero un po’ di tempo per fare quello che doveva. Poi, a un certo punto la guerra finì e lui tornò a casa. Aveva una moglie, Marisa, e una bambina nata da poco.
La guerra era finita, ma la pace in senso stretto non c’era. Non c’erano più bombardamenti, ma si sparava ancora.
Un giorno mia zia, all’epoca una bambina molto piccola, mentre andava verso la piazza del paese trovò un morto sul viottolo.
Insomma, le cose non erano a posto.
In quei giorni Marisa ricevette un telegramma da casa, da Porto Ercole, in cui le dicevano che suo padre stava per morire. Non c’erano mezzi di trasporto, così Nando e Marisa si misero in viaggio con un gruppetto di persone, un po’ a piedi e un po’ in camion.
Con loro c’era una guida che doveva portarli lungo strade sicure.
La storia di zio Nando finisce qua, ad armistizio già firmato, a guerra finita, con una guida fascista che li porta su un campo minato.
Pare che zio Nando se ne accorse. Che gridò all’uomo davanti a lui di fermarsi, ma quello aveva già pestato una mina.
Esplose tutto il campo, zio Nando finì colpito. Ancora, mentre agonizzava, cercava di dire agli altri come salvarsi.
Morirono tutti, tutti tranne Marisa.
Che restò lì, in mezzo a un campo di morti.
Lo zio Nando non è sepolto in montagna, ma su un’aspra collina ligure, il suo nome è nel memoriale dei partigiani.
Di tutti i dettagli non sono sicura. Questa è la storia così come me l’ha raccontata mia zia, che all’epoca dei fatti era una bambina.
Non è una bella storia, ma è una delle storie che celebriamo il 25 aprile. Storie di persone come noi, persone di carne e sangue, persone timide o spiritose, spendaccione o impacciate, persone sposate, adulti o ragazzini, uomini e donne che un giorno decisero che in fondo, sì, potevano anche andare a morire per combattere il fascismo.
A morire. A perdere la vita, il bene più grande. L’ho già scritto, ma lo ripeto: voi lo sentite, quant’è immensa questa cosa?