Volevo scrivere un pezzo sullo Ius Soli. Poi volevo scrivere un pezzo sull’IMU. Ho pensato di scrivere un pezzo sulle sovvenzioni al M5S. E anche sulle politiche economiche giapponesi. Volevo parlare di Kabobo e della Lega Nord.

Poi ci ho pensato meglio e mi sono resa conto che tutto quello che avrei voluto scrivere su questi argomenti sarebbe stato: “Non è proprio così”.

Per un motivo o per l’altro, “non è proprio così” è la considerazione che mi trovo a fare più di frequente, in questo periodo. E con in questo periodo intendo in questi ultimi anni.

In questi ultimi anni mi è sembrato di essere esposta a un costaante, irrefrenabile, straripante fiume di stronzate. Mi scuso per il linguaggio scatologico e vado a precisare. Stronzate per me sono tutte quelle informazioni non verificate, imprecise, talvolta volutamente imprecise, sottilmente travisate, svianti, sbagliate, dall’improprio nesso causale, manipolatorie o semplicemente riportate in modo superficiale.

Le notizie con un inizio, ma senza una fine. O la cui conclusione è sfumata, poco diffusa, praticamente irrilevante.

Immaginate di vedere i primi 3 minuti di Django unchained. Se qualcuno vi chiedesse di raccontare ciò che avete visto, le vostre parole sarebbero più o meno “una marcia forzata di schiavi afroamericani incatenati”. E sarebbe giusto. Non sarebbe, però, né una recensione del film, né un riassunto della trama, no?

Ecco, ora immaginate un cineforum in cui si svolga un dibattito su Django unchained a partire da questa informazione. Un commentatore strilla che gli schiavi non venivano incatenati, sulla base di evidenze storiche che non menziona. Un altro grida che è una vergogna che al cinema facciano vedere persone incatenate, sulla base di una generica indignazione. Un terzo partecipante al dibattito risponde al primo che a non venire incatenati erano gli schiavi cinesi (cinesi?) e spiega che questo ha una giustificazione nel particolare sistema di valori asiatico. Un quarto partecipante dice che di certe cose bisogna parlare. Un quinto se ne va indispettito perché nessuno lo ascolta. Un sesto grida: “Sveglia, la schiavitù non esiste più!”. Un settimo gli risponde che non ha mai visto una fabbrica indonesiana (nemmeno lui, ma questo non lo dice). L’ottavo spacca la sua sedia come forma di protesta contro il cineforum.

Nessuno di loro ha visto il film, nemmeno i primi tre minuti. Stanno dibattendo basandosi sulla frase “una marcia forzata di schiavi afroamericani incatenati”. Non sanno di quanti schiavi si tratti, se sia giorno o notte, chi li abbia incatenati, se qualcuno li sorvegli, dove stiano andando quegli schiavi, che anno sia… ma ne parlano comunque.

Grottesco, vero?

Be’, è quello che è successo per tutti gli argomenti che enumeravo a inizio post.

Ora, se qualcuno a questo punto sta iniziando a pensare “eh, sì, perché i nostri mass media non danno correttamente le informazioni” è pregato di alzare virtualmente le chiappe e andare a dire stronzate da qualche altra parte. Grazie.

Molto bene, riprendiamo.

Il problema è che i nostri mass media non danno correttamente le informazioni. (Qua è previsto che voi ridiate). Non le danno correttamente in tre modi: 1) non le tarano su lettori o ascoltatori con un Q.I. medio di 90 [a]; 2) danno per scontato che i lettori o gli ascoltatori abbiano qualche conoscenza pregressa o quantomeno una minima cultura di base; 3) forniscono il riassunto di un riassunto, cioè ciò che i lettori o gli ascoltatori desiderano.

Questo non succede con tutte le notizie, è chiaro. Per esempio, se il tg dice che lo spread oggi è sui 220 punti base, quella è una notizia completa e affidabile. Succede solo con alcune. Succede, per lo più, con notizie che richiedono un minimo background di conoscenze e una certa prontezza mentale da parte dell’ascoltatore. Succede con notizie complesse, non facilmente riassumibili. Come gli argomenti di cui parlavo prima.

Ora, se qualcuno a questo punto sta iniziando a pensare “eh, sì, è tutto un complotto dei mezzi d’informazione per tenerci all’oscuro su quello che succede” è pregato di alzare virtualmente le chiappe e andare a dire stronzate da qualche altra parte. Grazie.

Molto bene, riprendiamo.

Il problema è che i nostri mezzi d’informazione complottano per tenerci all’oscuro, nel senso che i nostri mezzi d’informazione hanno un obbiettivo primario: l’audience (o il numero di lettori). Per questo motivo, tendono a dare le notizie non appena vengono battute dalle agenzie, senza approfondirle per mancanza di tempo. Alcune di queste agenzie poi si rivelano meno importanti del previsto e vengono quindi accantonate, perché gli spettatori non vogliono sentir parlare di notizie irrilevanti. Resta quell’inizio approssimativo di informazione, quell’abbozzo, che lo spettatore in parte rimuove ma che in parte va a finire nel mucchio di cose “che non hanno avuto risposta”. È un mucchio informe e polimorfo, quel mucchio. Contiene tutti gli inizi di storia abortiti, tutto quello di cui non abbiamo più saputo nulla. Non siamo in grado di dire che cosa contenga con esattezza, ma ne percepiamo le dimensioni.

E quando queste dimensioni superano un certo valor soglia che potremmo denominare “soglia della paranoia” noi iniziamo ad avere l’impressione che ci sia stato tenuto nascosto qualcosa. Il che è assolutamente vero.

Altre notizie hanno il destino opposto. Crescono a dismisura, finché non sono più riassumibili. Pertanto, i mezzi di informazioni si limitano ad aggiornare il proprio pubblico sulle ultime novità, senza fornire più il quadro generale. Si forma una sorta di buzz di fondo, dal quale il lettore/ascoltatore non riesce più a selezionare correttamente le informazioni. Non riesce più a distinguere tra fatti, ipotesiopinioni.

Per ricomporre il puzzle ha bisogno di skill che non possiede o di tempo che non ha.

Ma siccome, tutto considerato, a nessuno piace ammettere di non capire qualcosa e di non avere il tempo per capirlo, preferisce urlare che è uno schifo e farla finita lì, convinto che, tanto, a gridare che è uno schifo non si sbagli mai.

Poi la notizia si sgonfia e quelle che dovrebbero essere le conclusioni, la chiusura, non arrivano mai. La notizia, tra l’altro, si sgonfia mentre tutti urlano che è uno schifo. Quando stai urlando che è uno schifo non ti interessa più sapere che cosa sta succedendo. Ti interessa solo continuare a urlare.

Vi faccio un esempio.

Il ministro Kyenge pone la questione dello Ius Soli per i figli degli immigrati. Immediatamente dopo si alza un vespaio di polemiche, per cui i media relegano le informazioni sulla normativa vigente a periferici trafiletti o a veloci incisi nei servizi tv. Quello che fa notizia è la polemica. Beppe Grillo grida più forte di molti altri riportando un’informazione incompleta. Infatti le prime dichiarazioni di Grillo sono ” Lo ius soli se si è nati in Italia da genitori stranieri e si risiede ininterrottamente fino a 18 anni è già un fatto acquisito. Chi vuole al compimento del 18simo anno di età può decidere di diventare cittadino italiano”.

Per la precisione, i figli di immigrati nati in Italia hanno un anno di tempo, tra i 18 e i 19 anni, per dimostrare i loro diritti. Peccato che “Attualmente i tempi di attesa per l’acquisto della cittadinanza si aggirano o superano i cinque anni, mentre la normativa preveda un periodo di attesa massimo di 760 giorni, ovvero di 2 anni” (fonte).

A questo punto, vi renderete conto da soli del problema. I figli degli immigrati devono fare in un anno ciò che la legge italiana si riserva di fare in due e solitamente fa in più di cinque. Nel frattempo, se non hai un posto di lavoro sei un clandestino e pertanto devi ritornare a un paese che magari non hai mai nemmeno visto.

Questo semplice dato di fatto, però, nel casino generale che ha seguito le parole di Kyenge non è stato percepito dai lettori/ascoltatori.

Che nel frattempo, comunque, avevano già iniziato a gridare che era uno schifo (e che il ministro mangia banane con il culo – di questo non ho intenzione di citare la fonte, sapete bene quanto me che è vero).

Quindi, ecco, la situazione è questa.
Viene data un’informazione su qualcosa di potenzialmente controverso e la macchina delle notizie in un modo o nell’altro impazzisce.

Ora qualcuno dirà: “È tutta colpa di internet. Prima di internet le masse di commentatori commentavano al massimo al bar”. Ecco, siete pregati di alzare virtualmente le chiappe e di andare a dire queste stronzate da qualche altra parte. Grazie.

Perché, vedete, il problema è che prima di internet, potevi spedire una lettera al giornale, potevi parlarne con il parrucchiere o potevi fare una conferenza a tua moglie, ma quello che dicevi non produceva una massa di opinioni chiaramente percepibile. Ne parlavi, ma i mezzi d’informazione non ti vedevano e quindi non ti amplificavano. Ora puoi sparare tutte le stronzate che vuoi su Facebook o sul tuo blog, impunito.

I giornalisti RAI vanno su Twitter e leggono i tweet relativi agli hashtag più popolari, poi ne parlano al tg.
Questa massa di opinioni diventa una notizia e la notizia diventa un fatto.

Abbiamo un problema.

Non fermiamoci qua. Facciamoci una domanda intelligente, per una volta.

Qual è questo problema? Internet?

(Se vi state rispondendo mentalmente “sì”, per favore, toglietevi di qua. Sul serio, però. È una cazzo di domanda retorica. Studiate la retorica e poi tornate pure.)

Il problema è il solito problema di cui parlavamo all’inizio. Il problema è che non siamo abbastanza brillanti, abbastanza istruiti e abbastanza attenti. Noi commentatori di internet, dico.

Il problema è che non siamo degli esperti ma vogliamo parlare lo stesso. E prima di parlare non facciamo nemmeno lo sforzo di cercare di capire quello di cui stiamo parlando.

Come dicevo all’inizio, avrei avuto voglia di scrivere un post sulle politiche economiche del Giappone. Sono molto interessanti, le politiche economiche del Giappone. In misura minore, lo sono anche quelle degli Stati Uniti.

Che siano interessanti non significa che siano “una grande idea”. La maggior parte degli economisti pensa che, quanto meno per l’Europa, non lo siano.

Ma io, Susanna Raule, scrittrice, laureata in neuropsicologia, specializzata in psicoterapia gestaltica, che cavolo ne so?

Oh, sì, ho letto un pacco di articoli. Mi sono ascoltata quattro ore di conferenza bloccando la registrazione per andarmi a controllare i termini difficili su Wikipedia. Ora sì che sono un’esperta di problemi macroeconomici.

La realtà è che non ho il tempo, né i soldi, né la voglia per fare un corso universitario di economia di tre anni minimo. E capisco che senza non sono in grado di parlare con competenza di questo argomento. Ne posso leggere, posso fare qualche mia piccola considerazione nel salotto di casa mia (non sono il tipo che si mette a chiacchierare al bar), posso cercare di cogliere i fondamentali della questione.

Tutto qua.

Probabilmente, voi che mi state leggendo siete degli esperti in qualche disciplina. Non vi cascano le braccia, ogni volta che sentite qualche ignorante parlare della disciplina in cui siete esperti?

A me cadono le braccia quattro volte al giorno, sentendo degli ignoranti che parlano di psicologia. Perché tanto, si sa, la psicologia è per lo più buon senso.

Ecco. Un cazzo, ok?

Non è quasi mai solo questione di buon senso. La scienza non è solo questione di buon senso, la statistica non è solo questione di buon senso, la psicologia non è solo questione di buon senso, la medicina non è solo questione di buon senso, il diritto non è solo questione di buon senso, la climatologia non è solo questione di buon senso, l’economia non è solo questione di buon senso…

Quando un economista della domenica andava da Monti per dirgli che stava “sbagliando tutto” e Monti, glacialmente educato, gli rispondeva di andare a farsi fottere (sto parafrasando) aveva ragione Monti, ok?

Se un astronomo della domenica va da Margherita Hack per dirle che lei “ha torto” e la Hack gli risponde di andare a farsi fottere (probabilmente non sto neanche parafrasando), ha ragione Margherita Hack, ok?

Se un animalista con un diploma in ragioneria va da un ricercatore con un dottorato in biogenetica per dirgli che i suoi esperimenti “sono fuffa” e il ricercatore gli risponde di andare a farsi fottere, ha ragione il ricercatore, ok?

Noi tutti possiamo parlare di quello che non conosciamo. Non c’è un articolo della costituzione che ce lo vieti.

Ma poi non incazziamoci se ci rispondono di andare a farci fottere.

[a] Quando parlo di Q.I.=90 mi riferisco a quella porzione non irrilevante di italiani che non è ritardata, neanche lievemente ritardata, ma che per motivi biologici, culturali o familiari non capisce prontamente. Tutti noi ne conosciamo qualcuno. Tutti noi, in qualche ambito, facciamo parte di quella proporzione. Provate a parlarmi di calcio e capirete.

Informazioni su Susanna Raule

Susanna Raule, psicologa e psicoterapeuta, è nata alla Spezia nel 1981. Ha lavorato come traduttrice e sceneggiatrice per vari editori. Nel 2005 vince il Lucca Project Contest con il suo fumetto "Ford Ravenstock – specialista in suicidi", con i disegni di Armando Rossi, in seguito finalista al Premio Micheluzzi (Napoli Comicon). Nel 2010 è tra i finalisti del premio IoScrittore promosso dal gruppo editoriale Mauri Spagnol con "L’ombra del commissario Sensi", che esce per Salani, con cui pubblica anche "Satanisti perbene" e "L’architettura segreta del mondo". In seguito esce una prima edizione de "Il Club dei Cantanti Morti", il graphic novel "Inferno", "I ricordi degli specchi" e l’antologia di racconti a tiratura limitata "Perduti Sensi". "Il club dei cantanti morti" nel 2019 diventa il primo volume di una trilogia crime-sovrannaturale per Fanucci. Nel 2020 viene ripubblicato un primo volume di "Ford Ravenstock" per Doulble Shot. Su Wattpad è disponibile gratuitamente il suo romanzo "La signora Holmes". "L’ombra del commissario Sensi" è stato selezionato dal Sole 24 Ore nella collezione dei migliori gialli italiani. Scrive per le testate Esquire, Harper’s Bazaar e Wired. È tra le fondatrici del collettivo per la parità di genere nel fumetto Moleste (www.moleste.org). Il suo sito è www.susannaraule.com

Una risposta »

  1. Sonia ha detto:

    Un articolo perfetto.

  2. Luigi Galieni ha detto:

    Eppure… eppure…

    stuzzichi un argomento spinoso che però è alla base della democrazia e della gestione dello Stato: se il cittadino comune non è competente (e non lo è, c’è poco da fare) ed il politico non è competente (qui ci si potrebbe fare qualcosa, ma lo stato attuale mi pare questo) come si fa a fare pubbliche elezioni per votare dei politici che poi dovranno legiferare su economia, immigrazione e quant’altro?

    Bisognerebbe che a far ricerca pensassero i ricercatori, a fare economia pensassero gli economisti e così via. La democrazia dovrebbe andare a farsi fottere perché non è competente ed al governo ci dovrebbero stare solo dei tecnici.

    Argomento molto spinoso di questi tempi.

    La mia risposta personale a tutto ciò è che la democrazia, allo stato attuale, è solo una pia illusione. Ma da questo ad immaginare una qualche ipotesi risolutiva ce ne passa… anche perché non sono competente: ci vorrebbe un esperto.

    • Susanna Raule ha detto:

      ma il problema non è la democrazia, il problema è la partecipazione diretta.
      che è il processo di rompere costantemente le palle a chi governa commentando ogni sua mossa.
      se uno elegge dei rappresentanti, dovrebbe essere per venire rappresentato, no?
      invece no. gli italiani grazie a internet sono diventati un branco di suocere, di umarelli, di ficcanaso che finiscono per influenzare il lavoro di quei rappresentanti.
      hanno un momento per esprimere il loro parere, peraltro: le elezioni.
      il resto del tempo è inutile. se chi esprime l’opinione è poi un mentecatto di classe A, un incontinente verbale e un ignorante, oltre che inutile diventa pure nocivo.

      e questo non ha NIENTE a che fare con la democrazia. non più di quanto c’entri con la democrazia fare un referendum tra umarelli per decidere dove piazzare la tubatura del gas.

  3. giulia ha detto:

    GRAZIE!!!!
    hai espresso pienamente la mia frustrazione di analista geopolitica…

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